Questo articolo è stato pubblicato sul numero 162, Aprile 2000 di Aeronautica & Difesa

Più di 750 ore di volo, oltre 4.300 passeggeri imbarcati, 650.000 libbre di materiale trasportato in cinque mesi e mezzo di operazioni “fuori area”: sono questi i numeri della partecipazione dell’Aeronautica Militare alla missione a Timor Est. Iniziata il 7 ottobre e terminata ufficialmente il 24 febbraio, questa ha visto uomini e mezzi della Forza armata operare a 15.600 chilometri da casa e volare su terre dilaniate da una guerriglia cruenta, combattuta nella giungla a colpi di “machete”. Adesso finalmente anche grazie ai nostri militari, nel paese sta tornando la pace.
Eppure, fino alla fine di agosto pochi conoscevano Timor, una delle tante isole dell’immenso arcipelago indonesiano, distante otto fusi e mezzo dall’Italia, teatro di una guerra civile da 25 anni e cioè dalla fine della dominazione portoghese. Malgrado si trattasse di un’area di operazioni molto lontana e priva di interessi economici, il Governo Italiano, superando l’immobilismo cronico dimostrato troppo spesso in passato di fronte a simili situazioni di crisi, decideva immediatamente l’invio dei nostri militari dall’altra parte del globo per operare all’interno della forza multinazionale di pace INTERFET (International Force Est Timor). Uno dei più grandi problemi incontrati in fase di pianificazione era il numero di vaccinazioni alle quali tutti i nostri militari dovevano sottoporsi prima di partire. La terribile Encefalite Nipponica (il cui vaccino, lo J.E.VAX., richiedeva ben tre richiami e 24 giorni di incubazione) e focolai di Malaria, Febbre Rossa e Dengue erano riportati come presenti nell’area.
Raccolti i pareri dei medici e vaccinato tutto il personale in partenza, l’aeroporto di Darwin nel nord dell’Australia, veniva scelto come base per gli aeromobili italiani poiché distante solo 250 NM dall’isola di Timor ed adeguatamente attrezzato ad accogliere aerei di dimensioni medio-grandi e l’intera comunità italiana.
Coadiuvati dai Boeing 707TT del 14° Stormo di Pratica di Mare, i C-130 della 46^ Brigata di Pisa iniziavano quindi il 20 settembre a fare la spola con l’Australia per trasportare tutto il materiale necessario all’allestimento del Distaccamento AM e a prepararlo all’arrivo dei velivoli scelti come contributo Italiano all’ICAW (INTERFET Combined Airlift Wing), lo stormo di trasporto creato in seno alla missione internazionale denominata “Stabilise”. Il ponte aereo messo in atto dall’Aeronautica Militare è stato imponente: ogni volo di Hercules verso Timor è durato anche quattro giorni e ha reso indisponibili i velivoli per una settimana, mentre anche più di una settimana è servita ai G-222 per raggiungere il continente australiano. Era stato deciso di inviare i più piccoli “Panda” del 2° e 98° Gruppo per effettuare i voli quotidiani per Timor poichè nell’isola le uniche “landing facilities” erano rappresentate da corte piste sterrate ricavate nella giungla, più adatte quindi ad un velivolo agile e di dimensioni medie ma allo stesso tempo robusto, dotato di capacità STOL (Short Take-off and Landing) ed in grado di effettuare decolli ed atterraggi tattici al riparo da armi antiaeree spalleggiabili.
Il trasferimento dei G-222 da Pisa a Darwin, coincideva con il più lungo viaggio effettuato da questi velivoli dalla loro entrata in servizio. I velivoli concludevano il 7 ottobre un’epica trasvolata di otto giorni. Sui loro quaderni di bordo erano annotati ben sei scali intermedi: Luxor (Egitto), Abu Dhabi (UAE), Bombay (India), Colombo (Sri Lanka), Phuket (Tailandia) e Surabaya (Isola di Java).Il campo base di Darwin al loro arrivo era già pronto ad accoglierli, l’area logistico operativa era composta da containers affittati dalle forze aeree Australiane nei quali oltre ad essere ospitati 24 fra ufficiali e sottufficiali italiani era stata creata una sorta di SOR (Squadron Operation Room) con radio U/VHF e telefoni satellitari. I velivoli avevano a disposizione due parking stands nel piazzale antistante la zona italiana ed erano parcheggiati accanto ai C-130 Hercules canadesi, americani, tailandesi e australiani e ai due C-160 Transall francesi. Durante i primi dieci giorni di rischieramento nessun volo veniva “taskato” dall’INTERFET per i nostri velivoli per permettere agli equipaggi di familiarizzare con le zone circostanti l’aeroporto e di assimilare le procedure in uso sullo stesso. Il controllo del traffico aereo, il servizio medico e quello meteorologico venivano completamente gestiti dai padroni di casa ed in particolare quest’ultimo si rivelava di fondamentale importanza in una zona del pianeta al confine tra Asia e Oceania le cui stagioni sono scandite dalla presenza dei Monsoni. Esistono due tipi di clima laggiù, quello umido, nel periodo da Settembre a Febbraio, e quello secco, da Marzo ad Agosto. Durante la stagione umida il rateo di precipitazioni è estremamente alto e oltretutto si crea una particolare concentrazione di uragani come “Tracey” che nel 1974, rase completamente al suolo Darwin. Per questo i briefing meteo assumevano particolare importanza durante tutta la missione in terra australiana: un piano di sgombero rapido veniva illustrato al personale italiano cui facevano seguito anche un paio di esercitazioni. Un piano d’evacuazione era previsto in caso d’uragano anche per i due G-222. Questi dopo essere decollati quasi in “scramble” si sarebbero rischierati in un’altra base da scegliere a seconda delle condizioni meteorologiche riportate sui vari alternati. Alla prima fase di puro ambientamento seguivano voli di collegamento con Townsville dove erano basati i paracadutisti della Brigata Folgore.

Ma come si svolgeva l’attività di volo giornaliera dei nostri equipaggi a Darwin? Ce l’ha illustrata il Ten. Babini, PIO (Public Information Officer) dell’A.M. a Timor per un mese e mezzo, dall’inizio della missione fino a dicembre. La giornata iniziava sempre alle 7:30 con il decollo degli shuttle flights dell’INTERFET per Timor. Ad ogni nazione era assegnato uno slot, come avviene per i velivoli commerciali in qualsiasi aeroporto civile del mondo. Solitamente la separazione tra un decollo e l’altro non passavano più di 15 minuti. L’attività giornaliera era condotta da un singolo velivolo alla volta, per dare agli equipaggi e agli aerei stessi dei turni di riposo, solo raramente venivano effettuati voli in formazione dopo aver ottenuto le speciali autorizzazioni da coordinare di volta in volta. Personale di varie nazioni e materiale vario venivano trasportati in tre dei quattro aeroporti timoresi. L’Italia era l’unica nazione ad avere voli schedulati quotidiani con tre aeroporti. Con i serbatoi completamente riempiti (non era possibile effettuare rifornimento a terra a Timor) e l’aiuto di GPS portatili, i voli, usando nominativo radio “India November Tango” seguito da un numero progressivo a quattro cifre, arrivavano a Dili, nella regione Nord dell’isola. Vista dal cockpit, l’isola di Timor si presentava come una grande montagna, Monte Mundo Perdito (3.000 mt), completamente circondata da nuvole. Con un occhio fisso sul radar, per evitare di entrare in condizioni IMC (Instrumental Meteo Conditions) nei grandi Cumuli Nembi che a quelle latitudini assumevano le dimensioni d’intere regioni italiane, si raggiungeva l’aeroporto Komoro di Dili due ore dopo il decollo.
Dotato di una pista lunga 1.800 mt questo è completamente circondato dal mare e si estende su una lunga lingua di terra ai margini del centro abitato. Qualche elicottero del World Food Program e degli aerei dell’ONU erano basati permanentemente a Dili. Il secondo scalo, raggiunto volando verso Est per 30 minuti circa, era Baucau, situato su un altopiano nei pressi della costa nord di Timor. Fu costruito dagli indonesiani ed è completamente isolato e senza alcuna recinzione a proteggerne la pista. Era talmente strano vedere un aeroporto così abbandonato nel deserto che qualcuno dei nostri ufficiali pensava potesse essere stato ideato per farne una base avanzata da utilizzare in caso d’attacco verso l’Australia!
Durante la missione di INTERFET, Baucau era il quartier generale delle forze tailandesi. Quando i G-222 iniziavano l’avvicinamento all’aeroporto, dei soldati armati si posizionavano nelle postazioni di difesa attorno allo stesso per proteggerlo essendo Baucau uno degli “hot spot” di Timor dove alcune delle battaglie più sanguinose erano state combattute. La pista, leggermente più lunga di quella del Komoro-Dili, era spesso invasa dai bufali della zona, tanto che lo stesso Ten. Babini aveva ribattezzato l’aeroporto “Baucow”, parafrasandone il nome originale.
La terza tratta della giornata prevedeva che il velivolo raggiungesse Suai, dopo un secondo scalo, nuovamente a Dili.
Suai è il più occidentale degli aeroporti che venivano raggiunti dai velivoli INTERFET, 25 minuti di volo da Dili. E’ il più vicino a Timor Ovest e per questo era quello che deteneva il più alto livello di pericolosità (threatcon level).
La pista di Suai è lunga 905 metri e quindi gli unici velivoli della INTERFET in grado di atterrarvi erano proprio i nostri G-222. A differenza di tutti gli altri aeroporti di Timor ,dove è disponibile il servizio ATC da parte di personale australiano, a Suai non c’era una torre di controllo ed elicotteri armati pattugliavano continuamente l’area dove erano basati i contingenti della Malesia e della Nuova Zelanda (detti “Kiwis”). Una volta che tutti gli scali erano stati serviti, il velivolo faceva ritorno da Suai direttamente a Darwin, raggiungendola in due ore. Gli atterraggi avvenivano sempre entro le 3:30-4:00 del pomeriggio: nessun volo veniva effettuato dopo quell’ora perché le condizioni meteorologiche andavano rapidamente peggiorando con l’avvicinarsi della sera. Le piogge torrenziali erano una delle caratteristiche delle notti a Darwin.

Concludendo, si può affermare che il mantenimento di una forza operativa ed efficiente dall’altra parte del mondo è stata una delle prove più impegnative per l’Aeronautica Militare. La missione italiana, al pari di quella australiana “Warden” e dell’intera “Stabilise”, si è rivelata un successo. I nostri equipaggi, che non finiscono mai di dimostrare anche all’estero di cosa sono capaci, potranno presto contare su mezzi ancora più efficaci per accettare le sfide del nuovo millennio: i C-27J ed il C-130J non sono più soltanto un miraggio.

© David Cenciotti

The following artworks are a courtesy of Ugo Crisponi Aviation Graphics

4 Comments

  1. Salve,

    Solo per dire:

    ”I nostri equipaggi, che non finiscono mai di dimostrare anche all’estero di cosa sono capaci, potranno presto contare su mezzi ancora più efficaci per accettare le sfide del nuovo millennio: i C-27J ed il C-130J non sono più soltanto un miraggio”

    è difficile capire come mai gli italiani sono tanto afflitti dalla sindrome del ‘Ce l’ho solo io’. Bah. Anni di letture riguardo articoli tipo questo mi mettono se non altro sul chi vive, basti solo dire alle parole entusiastiche di chi descriveva a suo tempo il temibile AMX come l’aereo che avrebbe conquistato il mondo (era il 1985). Di sicuro ai trasporti non mancano le occasioni per fare esperienza da un pò d’anni a questa parte, ma qualcosa di più sobrio per chiosare un articolo non sarebbe male.

  2. Non mi è chiaro se la critica riguardi i “mezzi ancora più efficaci per accettare le sfide del nuovo millennio” o che “i nostri equipaggi non finiscono mai di dimostrare anche all’estero di cosa sono capaci”.
    Poiché parla della sindrome del ce l’ho solo io e poi da’ dei giudizi sull’AMX, credo si riferisca al mezzo; poi conclude sugli equipaggi e sull’esperienza degli stessi e quindi si riferisce ai nostri piloti.
    Nel primo caso sarei abbastanza sconcertato da una critica a mezzi che nella loro carriera in AM non hanno fatto altro che confermare il giudizio (o meglio l’aspettativa) di 10 anni fa. C-130J e C-27J sono mezzi senz’altro più efficaci dei loro predecessori e sicuramente adeguati alle missioni che sono chiamati ad assolvere in ambito di Forza Armata e in contesti interforze. Giustamente lei critica la sindrome del “ce l’ho solo io” anche se io tenderei a giudicare con altrettanta severità la sindrome del “se ce l’ha l’Italia, è una bufala”. Tutt’altro. Come dimostrano i successi della nostra industria all’estero e soprattutto in un mercato “tosto” come quello americano. E, per tornare ai trasporti, come ha dimostrato lo Spartan che si è aggiudicato la gara JCA.
    Se invece la critica riguardava l’esperienza all’estero dei nostri piloti della 46^ Brigata Aerea, credo che non ci sia molto da dire se non che è vero che i nostri equipaggi sono stati apprezzati moltissimo in scenari “fuori area” se non altro perché in grado di operare da piste dove altri velivoli non erano in grado di atterrare e/o decollare. Mi permetta inoltre una contro-critica: dire che i nostri trasporti fanno esperienza “da un pò di anni a questa parte” non le sembra riduttivo considerato che le missioni umanitarie fuori area vengono svolte da più di 50 anni?

  3. Ciao Davide,
    mi chiamo Massimiliano Colasi…abbiamo volato insieme con gli SF260 del 70′ Stormo ,quando sei venuto a Grazzanise un po’ di anni fa’ ormai.
    Per mia fortuna ho partecipato alla missione INTERFET nel periodo gennaio febbraio 2000 (ho fatto parte del Secondo Gruppo della 46^ Brigata Aerea per quasi otto anni prima di esere Istrutore a Latina).
    Sono passati ormai diversi anni e molte ore di volo…ma i ricordi di quell’esperienza sono sempre vivi nella mia memoria.
    Al piu’ presto ti mandero’ qualche foto della mia esperienza a Darwin cosi magari le potrai inserite nel post.
    Adesso ti aspetto a Geilenkirchen per venire a volare con noi sugli E3-A AWACS.
    A presto.
    Max

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