Questo articolo è stato pubblicato sul numero 185, Marzo 2002 di Aeronautica & Difesa

Al riparo da occhi indiscreti e lontano dagli onori della cronaca, c’è un’operazione delicatissima che senza soluzione di continuità vede impegnata l’Aeronautica Militare dal 28 dicembre scorso: la missione in Afghanistan. Sebbene per parecchio tempo non ne siano trapelati molti dettagli, in accordo a rigorose misure di sicurezza adottate dopo l’11 settembre ed in seguito anche all’acuirsi della tensione che ha portato all’inizio dell’“Operazione Anaconda”, l’imponente ponte aereo messo in atto dagli uomini e dai mezzi della 46a Brigata Aerea di Pisa, a supporto della Forza Internazionale per la Sicurezza e l’Assistenza all’Afghanistan, l’ISAF (International Security and Assistance Force), attualmente costituisce uno dei più importanti impegni dell’Arma Azzurra. Per farsi un’idea dello sforzo logistico sopportato dall’Aeronautica Militare per mettere in piedi un’operazione “fuori area” di tali proporzioni, con relativo rischieramento di velivoli e uomini su un aeroporto straniero, basta dare una rapida occhiata ai numeri delle missioni volate in Afghanistan, aggiornati al 20 febbraio: 81 sortite per 324 ore di volo, 720 passeggeri e 257.400 libbre di materiale trasportato. Non c’è che dire.
Grazie allo splendido materiale fotografico che ci ha fornito un testimone d’eccezione, il Cap. Flavio Babini dell’Ufficio Stampa AM, che ha partecipato alle prime missioni in Afghanistan, vi documentiamo gli importantissimi “shuttle flights” (voli navetta) per Kabul, compiuti dai C-130H “Hercules” della 46a Brigata Aerea.

La base italiana ad Abu Dhabi

A differenza dell’Operazione “Stabilise” (quella sostenuta dalla forza multinazionale di pace INTERFET a Timor Est) che vide i G.222 della 46a operare da una base aerea militare, la Darwin AB, le missioni in Afghanistan dei velivoli italiani hanno origine da un aeroporto commerciale internazionale, quello di Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti.
Inizialmente i velivoli italiani hanno operato da Muscat, in Oman, e solo in un secondo tempo, dopo i primi voli, i “decision maker” italiani hanno deciso di trasferire gli “Hercules” italiani in una base che fosse più “strategica” (non imponendo di percorrere una sola rotta per raggiungere l’Afghanistan) e che fosse al riparo da condizioni meteorologiche in grado di causare cancellazioni o ritardi nei voli. La familiare base di Al Dhafra, che durante la “Desert Storm” aveva ospitato il “Villaggio Locusta” ed i “Tornado” dell’Aeronautica Militare, era già completamente gremita di velivoli statunitensi e pertanto l’unico aeroporto in grado di ospitare gli ingombranti trasporti italiani era quello trafficatissimo, ma spazioso, di Abu Dhabi, da cui tutt’ora partono gli “shuttle flights” tricolore.
Il trasporto del materiale necessario alla costituzione della “cellula” italiana negli Emirati è stato garantito dai primi nuovi C-130J della 46a Brigata Aerea di Pisa, che hanno effettuato 29 sortite per Abu Dhabi totalizzando 165,5 ore di volo, trasportando 269 passeggeri e 150.400 libbre di materiale, oltre che dai B-707T/T del 14° Stormo di Pratica di Mare i quali, in configurazione mista combi-pax (cargo e trasporto passeggeri), hanno effettuato 14 sortite per un totale di 90 ore di volo. A questi vanno aggiunti anche alcuni voli cargo noleggiati presso alcuni vettori civili.
La componente dell’Aeronautica Militare nell’ISAF, al comando del T.Col. Fausto Braghieri, è attualmente composta da due aerei e 40 uomini. I velivoli impiegati sin dall’inizio per i voli con l’Afghanistan sono solo i “vecchi” C-130H, equipaggiati di sistemi di autodifesa (sostanzialmente i dispenser di “chaff” e “flares”) necessari all’impiego in teatri di crisi come i Balcani. Anche i nuovi C-130J, che per ora si sono limitati a svolgere missioni di trasporto e di collegamento dall’Italia per la base di Abu Dhabi, potranno essere rapidamente dotati di sistemi di difesa passiva per poter operare anche da zone di guerra con maggiore sicurezza (un G.222 dell’Aeronautica Militare fu abbattuto, alcuni anni fa, nei Balcani) non appena saranno completati i percorsi formativi per gli equipaggi che dovranno usare la suite di protezione del “J”.
Il personale della missione italiana è composto ovviamente da equipaggi di volo e specialisti della manutenzione, cui vanno aggiunti gli ufficiali che svolgono le funzioni di “liaison officer” per il coordinamento dei task operativi e delle clearance (autorizzazioni) con il COI (Centro Operativo Interforze) e con il comando delle operazioni aeree dell’“Enduring Freedom”, di base a Tampa, in Florida. A tal proposito, va sottolineato che il contingente italiano che partecipa all’ISAF opera in Afghanistan come un’unità ben distinta dalla più vasta operazione “Enduring Freedom”. Le due strutture sono sorrette da differenti gerarchie di comando e controllo, ma agiscono nello stesso teatro di operazioni e sono correlate grazie ad un’incessante attività di coordinamento.
L’Italia partecipa all’ISAF con 350 uomini, tra cui incursori, cavalleggeri ed esperti NBC, per assistere le istituzioni politiche afghane nel tentativo di mantenere un ambiente sicuro nella capitale Kabul e nelle aree limitrofe e l’onere della movimentazione dei nostri uomini e mezzi grava, sin dall’inizio, sullo strumento aereo messo a disposizione dall’Aeronautica. Senza i velivoli della 46a il contingente italiano non avrebbe mai potuto essere schierato.
Le prime missioni avevano avuto come destinazione Bagram, una cittadina a pochi chilometri a Nord della capitale, dotata di una striscia d’atterraggio che ha permesso di scaricare i primi militari del contingente italiano.

Una giornata tipo

Da Abu Dhabi sono lanciate un paio di sortite al giorno (una per ogni C-130H disponibile).
I velivoli decollano tra le 8:30 e le 9:00 locali anche se l’EOBT (Estimated Off-Block Time, l’ora stimata di rimozione dei blocchi alle ruote usata come riferimento per la determinazione dell’orario di decollo) può variare compatibilmente con le esigenze operative nel teatro di operazioni. Gli “shuttle flights” dispongono di slots, cioè di finestre temporali dell’ampiezza di 30 minuti, entro le quali devono decollare per poter essere separati dal traffico aereo in uscita dagli Emirati (in gergo “deconflittati”) e poter arrivare entro lo slot stabilito per l’atterraggio a Kabul. Il coordinamento per il rilascio delle autorizzazioni ATC e delle “diplomatic clearance” necessarie al sorvolo dei paesi lungo la rotta, è garantito dal personale di supporto all’Addetto Aeronautico dell’Ambasciata Italiana. Ovviamente, per poter decollare a quell’ora, gli equipaggi sono costretti a delle vere e proprie “levatacce”: la sveglia suona qualche minuto prima delle 5 del mattino, il tempo di vestire l’uniforme tipo-Bosnia, con stivaletti, pile, giubbetto imbottito, e si salta sul pullman per raggiungere l’aeroporto. Il breve tragitto che separa gli alloggi dallo scalo di Abu Dhabi, consente ai piloti di iniziare a discutere della missione, anticipando gli argomenti che verranno comunque trattati nel briefing pre-volo. Giunti in aeroporto, vengono esplicate le consuete procedure di sicurezza e di passaggio doganale, e si raggiungono i velivoli normalmente parcheggiati accanto a “wide bodies” civili. Un aspetto degno di nota è il notevole livello di integrazione dei militari italiani con le autorità aeroportuali (e non) degli Emirati, malgrado l’atipica convivenza tra le due realtà, una civile l’altra militare.
Quando i piloti prendono in consegna i velivoli, gli specialisti hanno appena terminato di lavorare completando l’ultimo check alle ricariche di chaff e flares: a causa della durata di ogni sortita (tra le 10 e le 11 ore), pur di garantire la disponibilità e l’efficienza dei velivoli durante il giorno (l’attività è solo diurna), il personale addetto alla manutenzione lavora sui due velivoli durante l’arco della notte. I “pipistrelli”, come si sono “auto-battezzati” proprio a causa del loro impegno notturno, iniziano a lavorare intorno alle 22:00 e possono finire, qualora l’ATO (Air Tasking Order) giornaliero richieda l’impiego di un solo velivolo, anche alle 13:00 del giorno successivo!
Si decolla con il pieno di carburante: a Kabul non ci sono autobotti per il rifornimento, quindi si carica più cherosene e, eventualmente, si lascia a terra qualche libbra di materiale o qualche militare che verrà trasportato con un altro volo.
La prima parte della missione è abbastanza tranquilla. Decollo, uscita strumentale dall’area di controllo di Abu Dhabi e quindi i velivoli, che comunque non volano mai in formazione e sono sempre separati di diversi minuti l’uno dall’altro, si dirigono verso la “zona calda”. Malgrado gli istradamenti cambino di giorno in giorno, per rendere le rotte dei nostri “Hercules” più imprevedibili, le direttrici di avvicinamento all’Afghanistan sono praticamente fisse. La prima, prevede di dirigere più o meno verso Nord, appena superato lo Stretto di Hormuz, attraversare l’Iran e quindi virare verso destra in direzione Nord Est per Kabul. L’altra, prevede di seguire le coste della penisola arabica fino a raggiungere il Pakistan, quindi procedere con una prua approssimativamente diretta verso Nord, e sbucare in Afghanistan in direzione della capitale. La prima direttrice è stata raramente utilizzata in quanto richiede un’opera di coordinamento abbastanza lunga (non è facile farsi autorizzarse l’attraversamento dello spazio aereo iraniano con un velivolo militare) anche se, specie durante i giorni dei massicci bombardamenti aerei, ha costituito una valida alternativa all’attraversamento della zona pakistana che era affollata di velivoli da ricognizione, da bombardamento o da superiorità aerea in orbita di pattugliamento (CAP, Combat Air Patrol). Inoltre, dettaglio da non sottovalutare, questa rotta prevede una tratta più lunga sul territorio afghano rispetto alla seconda direttrice che permette ai velivoli di entrare in territorio nemico solo nell’ultima fase del volo.
Indipendentemente dalla rotta seguita, la navigazione deve essere molto precisa onde evitare il sorvolo di zone in cui l’intelligence ha segnalato la possibile presenza dei temutissimi missili terra-aria “Stinger”: massima fiducia è riposta nel GPS di bordo (non c’è la minima radioassistenza disponibile) e nelle informazioni di traffico fornite da “Magic”, l’E-3 AWACS di turno che ha il controllo tattico delle flight in volo sull’Afghanistan. La tensione in cabina diventa palpabile man mano che il volo procede sulle montagne, sugli altipiani e sui deserti di questa parte dell’Asia centrale. I quattro membri dell’equipaggio di cabina, tutti militari con una consistente esperienza in missioni internazionali (parliamo di Antartide, Bosnia, Albania, Somalia e tutti i rischieramenti in USA per le varie Red, Green e Maple Flag), scrutano con attenzione il terreno sorvolato, cercando di scorgere prima possibile qualsiasi attività sospetta o, peggio, le classiche scie di fumo dei missili antiaerei: qualora fosse individuato il lancio di un missile, ci sarebbero pochi secondi per attuare le appropriate manovre evasive e tentare di schivarlo visto che un C-130 carico di carburante, materiale e passeggeri, non è certo agilissimo. Proprio per evitare che la traiettoria di volo sia troppo prevedibile, gli “Hercules” effettuano in continuazione delle accostate a destra ed a sinistra della rotta prevista, in quello che da terra potrebbe sembrare un vero e proprio “balletto”. Per fortuna, finora non ci risultano casi in cui i nostri aerei siano stati fatti oggetto di attenzione da parte di sistemi antiaerei, né sono stati riportati lanci di missili.
Dal cockpit dell’“Hercules”, l’altipiano di Kabul sembra una fortezza inespugnabile, circondato com’è da montagne alte 5.000 metri. Per arrivare nella capitale non c’è scampo: da qualsiasi parte si arrivi, si è costretti ad attraversare delle valli strettissime. Giunti sulla verticale della città, si fa una “spiralata” (sempre rigorosamente a vista) verso la pista dell’aeroporto, tenendo ben aperti gli occhi alla ricerca di eventuali cecchini, ma anche di altri aerei in volo. Un paio di sorvoli per la ricognizione della pista e il primo C-130 si presenta in finale per l’atterraggio. Il sorvolo della città pemette di osservare una miriade di abitazioni di cui rimangono soltanto le fondamenta.
A terra la temperatura è molto fredda (meno di 5°C), almeno 20-25°C più bassa rispetto alla mite Abu Dhabi, e la pista è battuta da un vento teso che alza moltissima polvere. L’aeroporto è circondato da rottami di aerei civili e militari, molti dei quali distrutti già prima della “Enduring Freedom”. L’aerostazione sembra quella di Sarajevo, stessa devastazione, stessi fori di proiettili sulle facciate. Cambiano solo le sfumature del paesaggio circostante, rigorosamente color giallo-ocra.
L’“Hercules” non spenge i motori: in 40 minuti bisogna scaricare tutto e ripartire, disimpegnando una piazzola che si trova accanto alla pista per far posto all’altro velivolo in arrivo. I motori accesi sono una precauzione che permettere di decollare, in una sorta di “scramble”, qualora ci fosse la necessità di evacuare rapidamente l’aeroporto: non bisogna dimenticare che siamo in un teatro di guerra. Dopo un decollo e una salita molto “ripida” favorita dal peso ridotto a causa del materiale scaricato, il volo di ritorno si svolge con le stesse modalità (e con la stessa tensione) di quello d’andata.
Proprio in virtù dell’impegno psico-fisico richiesto da questo tipo di missione, si cerca di ruotare gli equipaggi ogni mese provando, di regola, ad utilizzare tre equipaggi a rotazione sui velivoli: due in volo ed uno a riposo ogni giorno.
Al tramonto, le città costiere degli Emirati sono visibili già a molte miglia dall’atterraggio, illuminate a festa come Las Vegas. Si arriva ad Abu Dhabi che è già calata la notte, ad aspettare i velivoli, i “pipistrelli”, pronti ad iniziare un nuovo “turno” di lavoro. Domani si vola nuovamente nella “fortezza”.

© David Cenciotti